Il consumo di farmaci riduce la fertilità nei giovani maschi

PAOLO TURCHI • 15 luglio 2025

IL CONSUMO DI CANNABIS RIDUCE LA FERTILITA' NEI GIOVANI MASCHI

Una ricerca condotta nel Regno Unito ha stabilito che il consumo abituale di cannabis influisce sulle dimensioni e la forma degli spermatozoi nei giovani uomini.

Questo studio, di portata mondiale, si è posto l’obiettivo di verificare come gli stili di vita influenzino l’indice di fertilità agendo sulla produzione degli spermatozoi e sulla qualità globale del liquido seminale. Un gruppo di ricerca delle Università di Sheffield e Manchester ha evidenziato come queste caratteristiche peggioravano nei periodi estivi anche se sembravano poi migliorare se i periodi di astinenza si protraevano oltre i sei giorni tra uno spinello e l'altro.

Non c'è dubbio che i casi di infertilità nei giovani adulti sono in costante aumento e la colpa potrebbe essere anche del consumo diffuso della cannabis, troppo a lungo ritenuto una droga leggera. Gli studiosi hanno esaminato 2249 ragazzi reclutati in centri per la fertilità inglesi: hanno messo in relazione gli stili di vita con l’infertilità ed è emerso che a maggiore infertilità corrispondeva maggior uso di cannabis. Sembrano avere poca influenza, invece, fumo e alcol. Il dato riguardava in particolare coloro che avevano meno di trent’anni.

Alti dosaggi di tetra idro cannabinolo (THC) il principio attivo della cannabis, contenuta in alte dosi nell'hashish e nella marijuana, riducono la secrezione del testosterone e di conseguenza la produzione, la motilità e la capacità vitale degli spermatozoi. La riduzione del testosterone e della produzione di spermatozoi riscontrati negli studi hanno probabilmente un'importanza minore negli adulti, ma possono essere di grande importanza nel maschio prepubere che consuma cannabis. I possibili effetti del consumo di cannabis sul testosterone e sulla spermatogenesi potrebbero essere più rilevanti per gli uomini con fertilità già ridotta per altri motivi, per esempio in presenza di un varicocele. In realtà è dimostrato come il fumo di cannabis nell'uomo riduca la concentrazione nel sangue dei tre ormoni LH, FSH e testosterone. In altri studi sono state osservate basse percentuali di spermatozoi mobili nei forti fumatori di cannabis, ma non nei consumatori di marijuana. Studi sui topi dimostrano come un trattamento acuto di THC produca un decremento significativo e consistente dipendente dalla dose e dal tempo della concentrazione di LH e di testosterone. Nelle scimmie rhesus maschie una dose acuta di THC entro un'ora produce una riduzione del 65% della concentrazione di testosterone nel plasma, che si protrae per circa 24 ore.

Tutti questi studi sono talvolta contraddittori nei risultati e al momento non vi è alcuna evidenza certa che la cannabis influenzi negativamente la fertilità umana, oppure che provochi dei danni cromosomici o genetici. Tuttavia la forza del messaggio che proviene dagli esperimenti condotti su animali e sugli uomini, è che i cannabinoidi provocano alterazioni degli ormoni sessuali maschili e femminili e che il loro consumo soprattutto in età preadolescenziale o adolescenziale potrebbe diminuire la capacità riproduttiva nel maschio.

Autore: PAOLO TURCHI 15 luglio 2025
Buone notizie per i maschi dal Congresso della Associazione degli Urologi Americani che si è tenuto a maggio a New Orleans: oggi è possibile fare qualcosa per prevenire il tumore alla prostata, e per una volta non si richiedono diete ferree e sacrifici ipersalutisti. La dottoressa Jennifer Rider, epidemiologa di Boston, ha infatti presentato i risultati di uno studio secondo cui una regolare attività sessuale potrebbe prevenire l'insorgenza del tumore prostatico. La ricerca ha riguardato 32000 maschi seguiti dal 1994 ad oggi. Ai partecipanti erano state chieste all'inizio dello studio precise informazioni sulle abitudini sessuali, in particolare sulla frequenza dei rapporti che avevano avuto nell'anno precedente l'intervista e in altri due periodi della loro vita (nella decade tra i 20 e i 30 anni e in quella tra i 40 e i 50 anni); i soggetti sono stati seguiti nel tempo, ed è risultato che quelli che avevano una frequenza di rapporti più elevata si ammalavano di meno di tumore alla prostata. Nello specifico, coloro che avevano una media di più di 21 rapporti al mese in uno dei periodi presi in esame avevano un rischio di ammalarsi minore di circa il 20% rispetto a quelli che ne avevano solo da 4 a 7; inoltre, i soggetti che avevano mantenuto una media di rapporti superiore a 21 in tutti i periodi della vita considerati risultavano ancora più “protetti” nei confronti del tumore alla prostata, con un rischio di ammalarsi più basso di circa il 35% rispetto ai meno attivi sessualmente. Il carcinoma prostatico, la neoplasia più frequente negli uomini sopra i 65 anni di età, risulta meno legato rispetto ad altri tumori a fattori di rischio noti e modificabili. Di conseguenza, fare prevenzione vuol dire essenzialmente fare diagnosi precoce: una visita urologica periodica sopra i 60 anni potrebbe permettere di diagnosticare una malattia in fase iniziale quando siamo ancora in tempo per ottenere, avvalendoci anche delle più moderne metodiche come la chirurgia robotica, ottime probabilità di guarire dalla malattia conservando importanti funzioni quali la continenza urinaria e la potenza sessuale. Lo studio della dott.ssa Rider si pone quindi in un campo di grande importanza sociale e ancora alla ricerca di evidenze scientifiche. Precedenti studi avevano indicato un possibile ruolo preventivo degli antiossidanti vegetali presenti nella dieta mediterranea; potremmo quindi concludere che oggi il tumore della prostata si previene a tavola... e anche a letto!
Autore: PAOLO TURCHI 15 luglio 2025
I risultati di un importante studio europeo, pubblicato pochi giorni fa su Lancet (*) confermano che effettuare di routine il test del PSA porta a una significativa riduzione della mortalità per cancro della prostata. Tuttavia l’utilità dello screening è controverso soprattutto per i problemi legati alla sovra diagnosi, che è considerata un vero evento avverso all’effettuazione del test su tutta la popolazione. Che vuol dire? Vediamo di capirci qualcosa. ERSPC è uno studio multicentrico, randomizzato, con una banca dati centralizzata e predefinita, nel quale è stato valutato l’effetto del dosaggio dell'antigene prostatico specifico (PSA) in uomini tra i 55 e i 69 anni di età in otto paesi europei. Un gruppo di uomini di età compresa tra i 50 e i 74 anni, identificati dai registri della popolazione, sono stati assegnati, secondo una numerazione casuale generata da un computer, al gruppo di controllo che prevedeva il solo monitoraggio senza interventi diagnostici. L'obiettivo primario era valutare la mortalità per cancro alla prostata nel gruppo di studio, rispetto a quello di controllo. Gli uomini inseriti nello studio sono stati seguiti per 13 anni, durante i quali sono stati diagnosticati 7.408 casi di cancro alla prostata nel gruppo di intervento e 6.107 casi nel gruppo di controllo. La riduzione del rischio assoluto di morte per cancro alla prostata a 13 anni è stato 0 · 11 per 1000 anni-persona o 1 · 28 per 1000 uomini randomizzati, che equivale a una morte per cancro alla prostata scongiurato ogni 781 uomini che hanno effettuato lo screening. L’ERSPC conferma quindi una sostanziale riduzione della mortalità per cancro alla prostata attribuibile al test del PSA, con un sostanziale aumento dell'effetto assoluto a 13 anni rispetto a risultati dopo 9 e 11 anni. Nonostante questi risultati, un’ulteriore quantificazione dei danni e la loro riduzione sono ancora considerati un prerequisito per l'introduzione del PSA nello screening su larga scala. Gli stessi autori dello studio, nonostante questi risultati, rimangono prudenti circa i programmi di screening di popolazione, perché l'alto tasso di sovra diagnosi legate allo screening deve ancora essere affrontato. In conclusione ? Da un punto di vista delle raccomandazioni cliniche che le società scientifiche possono promulgare come linea di comportamento per gli specialisti, il tempo per lo screening di massa sulla popolazione non è ancora arrivato. Questo perché ulteriori ricerche dovranno valutare modi per ridurre l’eccesso di diagnosi, evitando costi rilevanti per il servizio sanitario per lo screening e per le procedure di biopsia inutili che questo screening comporterebbe, il tutto per aiutare infine solo pochi pazienti. Lo screening con il PSA è imperfetto perché, anche se salva la vita a molti uomini, causerà a molti altri l’individuazione di tumori che non li esporranno a un rischio di vita e costringeranno molti pazienti a sottoporsi a trattamenti non necessari. Un problema spesso trascurato con lo screening è che esso non impedisce tutti i decessi correlati alla malattia. Insomma non salva la vita a tutti coloro che lo eseguono. è questo trio di inconvenienti (sovra diagnosi, complicazioni del trattamento e progressione della malattia), che rendono incerto il ruolo del PSA nello screening del cancro della prostata. Lo stesso Richard Ablin, che scoprì il PSA nel 1970, ritiene che il suo uso nella routine sia un "disastro estremamente costoso per la salute pubblica." In realtà il PSA non è mai stato pensato per essere utilizzato per lo screening di routine, perché non in grado di rilevare il cancro alla prostata (come noto il PSA si può elevare anche per infezioni, uso di farmaci, ipertrofia benigna) e, soprattutto, il test non è in grado di differenziare un cancro alla prostata in rapida crescita e potenzialmente mortale da un cancro che cresce lentamente e che non ucciderà. Ciononostante rimane un test preventivo che non può essere ignorato, particolarmente nei casi di familiarità per cancro prostatico, e la sua utilità deve essere discussa tra medico e paziente, in ciascun singolo caso. Lancet. Pubblicato online il 7 agosto 2014
Autore: PAOLO TURCHI 15 luglio 2025
La terapia ormonale della infertilità maschile si basa sull'uso di due ormoni: l'FSH e l'HCG. Questi ormoni sono usati in una patologia che si chiama ipogonadismo ipogonadotropo, condizione nella quale l'organismo non è in grado di sintetizzare e immettere in circolo i 2 ormoni ipofisari FSH e LH che sono indispensabili per la produzione degli spermatozoi. Somministrare questi due ormoni in forma iniettabile ripristina una spermatogenesi efficace in pochi mesi. Sulla base di questi risultati da anni viene proposta la stessa terapia anche per trattare uomini con bassa produzione di spermatozoi, che possono avere livelli bassi o anche normali di FSH e LH (e testosterone). In sostanza in quelle forme di infertilità maschile senza una causa dimostrabile (si parla in questi casi di infertilità idiopatica) si possono somministrare questi ormoni con l’intento di iperstimolare i testicoli a produrre più spermatozoi. Questa terapia può essere proposta dallo specialista, che redigerà un piano terapeutico con il quale il paziente potrà ottenere il farmaco. Deve essere esplicitato il concetto che nonostante vi sia esperienza pluridecennale nell’uso dell’FSH e dell’HCG (che ha un effetto simile all’LH) nell’ipogonadismo ipogonadotropo, nelle forme cosiddette idiopatiche l’uso di questa terapia ormonale non compare nelle linee guida pubblicate, a causa di una evidenza scientifica ancora debole, sulla base degli studi ad oggi pubblicati. Tuttavia, oltre ad avere presupposti forti, questa terapia, negli studi pubblicati fino ad oggi, ha ottenuto risultati molto promettenti. Questi studi mostrano miglioramenti significativi in termini di ottenimento di gravidanza spontanea in coppi nelle quali i maschi erano stati curati con FSH rispetto ad analoga popolazione di maschi infertili che non avevano ricevuto la terapia. Addirittura, i miglioramenti, in termini di percentuale di coppie che hanno avuto il bambino desiderato, sono stati statisticamente significativi anche nei casi di gravidanza ottenuta con fecondazione assistita, in coppie nelle quali il maschio sia stato trattato con FSH. Perché porre una terapia impegnativa, in termini di costi e di durata , in una condizione quella della infertilità idiopatica nella quale non si è riusciti a porre una diagnosi precisa? Etichettare il maschio infertile come idiopatico e inviare la coppia a fare una procedura di fecondazione assistita equivale a privarlo di possibilità diagnostiche più approfondite e privarlo anche della possibilità di migliorare la sua condizione seminale. Lo stato si fa carico dei costi, se le indicazioni sono corrette e il maschio, anche nei casi nei quali si pensa di ricorrere alla fecondazione assistita, può, almeno in parte, farsi carico del peso della fecondazione assistita. Un 20–30% delle coppie infertili presenta infatti solo un fattore maschile. Il maschio in queste coppie è causa della fecondazione assistita che però grava interamente sulla donna, che in questi casi è sana e fertile ma deve farsi carico della procedura. Ad oggi nessuno studio, nel quale uomini infertili siano stati stimolati con livelli sovra fisiologici di gonadotropine, ha mai prodotto effetti collaterali. Le terapie sono ben tollerate e in genere i maschi infertili non hanno nessun tipo di riluttanza a sottoporsi alla terapia iniettiva. I cicli di terapia mediamente consistono di 3 iniezioni per settimana, che il paziente può praticarsi da solo, iniettandosi il prodotto sottocute nella pancia o in una coscia o in un braccio, per un periodo di 3 mesi. Naturalmente queste cure sono prescrivibili solo dallo specialista andrologo, che proporrà questa terapia sulla base di un protocollo diagnostico che abbia escluso cause specifiche di infertilità e redigerà un piano terapeutico attivando la nota AIFA 75 che consentirà di acquisire il farmaco nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale. Referenze - Dwyer AA, Raivio T, Pitteloud N. Gonadotrophin replacement for induction of fertility in hypogonadal men. Best Pract Res Clin Endocrinol Metab. 2015;29(1):91-103. - Anderson RC, Newton CL, Anderson RA, Millar RP. Gonadotropins and Their Analogs: Current and Potential Clinical Applications. Endocr Rev. 2018;39(6):911-937. - Duca Y, Calogero AE, Cannarella R, Condorelli RA, La Vignera S. Current and emerging medical therapeutic agents for idiopathi c male infertility. Expert Opin Pharmacother. 2019;20(1):55-67. - Shiraishi K, Matsuyama H. Gonadotoropin actions on spermatogenesis and hormonal therapies for spermatogenic disorders [Review]. 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