Effetti della età sulla fertilità maschile

PAOLO TURCHI • 15 luglio 2025

Una delle cause più importanti della riduzione della natalità nei paesi industrializzati, come noto, è la ricerca tardiva della gravidanza. La fertilità femminile inizia a decadere, gradualmente, a partire dalla terza decade di vita, per subire poi un crollo quasi verticale dopo i 40 anni. Nel maschio il problema età è stato a lungo sottovalutato avendo esempi di uomini che esperiscono la paternità perfino dopo gli 80 anni. Gli studi di questi ultimi 20 anni hanno però rilevato che anche nell’uomo c’è un decadimento importante, con il passare degli anni, soprattutto a causa di una minore capacità di identificare e distruggere gli spermatozoi danneggiati, processo chiamato apoptosi, che garantisce la migliore qualità seminale. Questo significa che nell'eiaculato di uomini che hanno più di 35 anni, ci può essere un numero maggiore di spermatozoi danneggiati, meno capaci di fecondare, e più capaci di provocare aborti spontanei o trasmettere difetti genetici.


Da quale età si può essere considerati troppo vecchi per essere padre?

Da anni, soprattutto nell’era della procreazione medicalmente assistita, il dibattito è aperto, ma ha riguardato quasi esclusivamente gli aspetti etici e sociali. Per il maschio insomma l’unico problema per diventare padre pareva essere quello di avere una partner sufficientemente giovane. Oggi sappiamo che con il tempo l'uomo, pur continuando a produrre spermatozoi, ne genera progressivamente meno e con più difetti, anche di tipo genetico, abbassando la capacità di concepimento di una coppia. È stato calcolato che se la donna ha meno di 25 anni, il tempo medio necessario per concepire è di 4 mesi circa se anche l’uomo ha meno di 25 anni, ma diventa di quasi 2 anni se l’uomo ha più di 40 anni. Altri studi hanno confermato che per gli uomini con più di 45 anni è necessario il quintuplo del tempo per concepire rispetto agli uomini con meno di 25 anni. Un altro effetto dell’età paterna avanzata si ha nell'aumento dei casi di aborto spontaneo, che diventano più probabili quando l’età del padre supera i 40 anni. E’

plausibile che l’aumento di rischio di aborto sia dovuto al fatto che spermatozoi di uomini più anziani abbiano maggiori mutazioni genetiche. Questo tema è stato oggetto di diversi studi di correlazione tra età paterna e presenza di malattie ereditarie nei figli. Le conclusioni di questi studi sono state che ai figli vengono trasmesse molte più mutazioni genetiche da parte dei padri che da parte delle madri, a causa della diversa genesi di ovociti e spermatozoi.

Dato che le mutazioni aumentano con l’aumentare dell’età del padre, uomini più anziani trasmetteranno più facilmente patologie come la depressione, l’autismo e la schizofrenia e sindromi cromosomiche come quella di Down.

Una ricerca pubblicata su Nature nel 2014 ha stimato che le probabilità di essere autistici per i figli di padri di 45 anni sono 1,5 volte più elevate dei figli di padri di 24 anni. La possibilità che questa trasmissione avvenga è comunque estremamente bassa e maggior parte delle mutazioni del DNA trasmesse ai figli sono innocue.

In quali uomini il rischio è maggiore?

Gli uomini che rischiano maggiormente di non concepire o di trasmettere difetti genetici, sono quelli esposti all’effetto di patologie come il varicocele o le malattie infiammatorie degli organi genitali o che si espongono a fattori di rischio quali il fumo di sigaretta o l’abuso di alcolici o di altre sostanze. Si tratta di malattie curabili e di fattori di rischio modificabili sui quali è utile soffermarsi.

Gli studi che correlano infertilità e fumo di sigaretta sono numerosi e dimostrano in modo consistente un danno diretto sulla qualità dei parametri seminali dose dipendente. L’esposizione degli spermatozoi a componenti tossici, come la nicotina o la cotinina, ne danneggia il DNA, riduce le capacità antiossidanti del plasma seminale e incrementa i radicali liberi dell’ossigeno (ROS). Il danno esercitato dall’alcol riguarda l’asse ormonale ipotalamo-ipofisi-gonadi, con una relazione negativa dose-dipendente. Bere più di 40 grammi di etanolo al giorno può indurre danni anche severi alla spermatogenesi, mentre un’assunzione modica di alcool (1 bicchiere di vino al giorno) non risulta essere dannosa.

Parlando poi dell’uso di sostanze stupefacenti, non solo gli oppioidi ma anche i cannabinoidi possono danneggiare la fertilità. La marijuana blocca il rilascio ipotalamico dell’ormone GNRH, con conseguente alterata produzione testicolare di testosterone e di spermatozoi. Più di un terzo dei consumatori abituali di marijuana ha ridotte concentrazioni di spermatozoi nel liquido seminale, con un effetto dose-dipendente che è reversibile ma può richiedere mesi e a volte anche anni per risolversi. E’ importante poi soffermarci sulla relazione alimentazione/obesità e riproduzione. La fertilità può diminuire tanto in uomini sovrappeso quanto in quelli francamente obesi. È quindi importante mantenere un indice di massa corporea (rapporto tra peso e altezza) normale, cioè tra 20 e 25 kg/m2.

Alimenti ricchi in pesce, frutta, verdura, legumi e cereali integrali, sono stati associati a una migliore motilità degli spermatozoi se comparati con diete ricche in carne rossa, insaccati, pizza, bevande zuccherine e dolci. Benché i dati non siano univoci, diete equilibrate per contenuto di vitamina C, zinco, selenio, folati, carnitina e carotenoidi, glutatione e coenzima Q10 sono state associate a una riduzione dei ROS e a una migliore qualità seminale con aumento delle possibilità di gravidanza.

Quali esami fare nella ricerca tardiva di paternità?

Per studiare il decadimento della capacità riproduttiva età correlata, non ci sono esami specifici. Vale l’iter diagnostico raccomandato per ogni altro maschio infertile. La visita specialistica andrologica rimane il punto di partenza clinico e lo spermiogramma, eseguito secondo i criteri dell’OMS, quello laboratoristico. Il medico potrà richiedere ulteriori indagini, su sangue, su liquido seminale o con esami strumentali, in base alle problematiche eventualmente riscontrate. Negli ultimi anni è stato fatto largo uso, in laboratori specializzati, del test di frammentazione, un esame che si esegue su liquido seminale e che è in grado di studiare la qualità del DNA dello spermatozoo, che appare particolarmente danneggiato negli uomini esposti a fattori di stress ossidativo. L'età è un fattore di stress ossidativo indipendente e questo test potrebbe essere utile in uomini oltre i 35 anni, in particolare quando il fattore anagrafico è associato ad altri noti come causa di stress ossidativo, quali quelli elencati precedentemente.

Come proteggersi dai rischi?

Praticare sport regolarmente riduce il rischio di trasmettere danni genetici, perché favorisce un allungamento dei telomeri, una sorta di cappuccio protettivo dei cromosomi. Inoltre, limitare gli alcolici, dimenticare il fumo e mangiare bene. Privilegiando alimenti antiossidanti.


Conclusioni: Anche se l’uomo conserva le sue potenzialità riproduttive per la maggior parte della sua vita, oggi sappiamo quali cambiamenti si verificano e quali potenziali conseguenze ci possano essere con l’aumentare dell’età. Anche se sulla base delle conoscenze attuali non è giustificato dissuadere gli uomini meno giovani dal tentativo di diventare padre, di tali potenziali conseguenze è dovere della comunità medica informare le coppie infertili.

Autore: PAOLO TURCHI 15 luglio 2025
Buone notizie per i maschi dal Congresso della Associazione degli Urologi Americani che si è tenuto a maggio a New Orleans: oggi è possibile fare qualcosa per prevenire il tumore alla prostata, e per una volta non si richiedono diete ferree e sacrifici ipersalutisti. La dottoressa Jennifer Rider, epidemiologa di Boston, ha infatti presentato i risultati di uno studio secondo cui una regolare attività sessuale potrebbe prevenire l'insorgenza del tumore prostatico. La ricerca ha riguardato 32000 maschi seguiti dal 1994 ad oggi. Ai partecipanti erano state chieste all'inizio dello studio precise informazioni sulle abitudini sessuali, in particolare sulla frequenza dei rapporti che avevano avuto nell'anno precedente l'intervista e in altri due periodi della loro vita (nella decade tra i 20 e i 30 anni e in quella tra i 40 e i 50 anni); i soggetti sono stati seguiti nel tempo, ed è risultato che quelli che avevano una frequenza di rapporti più elevata si ammalavano di meno di tumore alla prostata. Nello specifico, coloro che avevano una media di più di 21 rapporti al mese in uno dei periodi presi in esame avevano un rischio di ammalarsi minore di circa il 20% rispetto a quelli che ne avevano solo da 4 a 7; inoltre, i soggetti che avevano mantenuto una media di rapporti superiore a 21 in tutti i periodi della vita considerati risultavano ancora più “protetti” nei confronti del tumore alla prostata, con un rischio di ammalarsi più basso di circa il 35% rispetto ai meno attivi sessualmente. Il carcinoma prostatico, la neoplasia più frequente negli uomini sopra i 65 anni di età, risulta meno legato rispetto ad altri tumori a fattori di rischio noti e modificabili. Di conseguenza, fare prevenzione vuol dire essenzialmente fare diagnosi precoce: una visita urologica periodica sopra i 60 anni potrebbe permettere di diagnosticare una malattia in fase iniziale quando siamo ancora in tempo per ottenere, avvalendoci anche delle più moderne metodiche come la chirurgia robotica, ottime probabilità di guarire dalla malattia conservando importanti funzioni quali la continenza urinaria e la potenza sessuale. Lo studio della dott.ssa Rider si pone quindi in un campo di grande importanza sociale e ancora alla ricerca di evidenze scientifiche. Precedenti studi avevano indicato un possibile ruolo preventivo degli antiossidanti vegetali presenti nella dieta mediterranea; potremmo quindi concludere che oggi il tumore della prostata si previene a tavola... e anche a letto!
Autore: PAOLO TURCHI 15 luglio 2025
I risultati di un importante studio europeo, pubblicato pochi giorni fa su Lancet (*) confermano che effettuare di routine il test del PSA porta a una significativa riduzione della mortalità per cancro della prostata. Tuttavia l’utilità dello screening è controverso soprattutto per i problemi legati alla sovra diagnosi, che è considerata un vero evento avverso all’effettuazione del test su tutta la popolazione. Che vuol dire? Vediamo di capirci qualcosa. ERSPC è uno studio multicentrico, randomizzato, con una banca dati centralizzata e predefinita, nel quale è stato valutato l’effetto del dosaggio dell'antigene prostatico specifico (PSA) in uomini tra i 55 e i 69 anni di età in otto paesi europei. Un gruppo di uomini di età compresa tra i 50 e i 74 anni, identificati dai registri della popolazione, sono stati assegnati, secondo una numerazione casuale generata da un computer, al gruppo di controllo che prevedeva il solo monitoraggio senza interventi diagnostici. L'obiettivo primario era valutare la mortalità per cancro alla prostata nel gruppo di studio, rispetto a quello di controllo. Gli uomini inseriti nello studio sono stati seguiti per 13 anni, durante i quali sono stati diagnosticati 7.408 casi di cancro alla prostata nel gruppo di intervento e 6.107 casi nel gruppo di controllo. La riduzione del rischio assoluto di morte per cancro alla prostata a 13 anni è stato 0 · 11 per 1000 anni-persona o 1 · 28 per 1000 uomini randomizzati, che equivale a una morte per cancro alla prostata scongiurato ogni 781 uomini che hanno effettuato lo screening. L’ERSPC conferma quindi una sostanziale riduzione della mortalità per cancro alla prostata attribuibile al test del PSA, con un sostanziale aumento dell'effetto assoluto a 13 anni rispetto a risultati dopo 9 e 11 anni. Nonostante questi risultati, un’ulteriore quantificazione dei danni e la loro riduzione sono ancora considerati un prerequisito per l'introduzione del PSA nello screening su larga scala. Gli stessi autori dello studio, nonostante questi risultati, rimangono prudenti circa i programmi di screening di popolazione, perché l'alto tasso di sovra diagnosi legate allo screening deve ancora essere affrontato. In conclusione ? Da un punto di vista delle raccomandazioni cliniche che le società scientifiche possono promulgare come linea di comportamento per gli specialisti, il tempo per lo screening di massa sulla popolazione non è ancora arrivato. Questo perché ulteriori ricerche dovranno valutare modi per ridurre l’eccesso di diagnosi, evitando costi rilevanti per il servizio sanitario per lo screening e per le procedure di biopsia inutili che questo screening comporterebbe, il tutto per aiutare infine solo pochi pazienti. Lo screening con il PSA è imperfetto perché, anche se salva la vita a molti uomini, causerà a molti altri l’individuazione di tumori che non li esporranno a un rischio di vita e costringeranno molti pazienti a sottoporsi a trattamenti non necessari. Un problema spesso trascurato con lo screening è che esso non impedisce tutti i decessi correlati alla malattia. Insomma non salva la vita a tutti coloro che lo eseguono. è questo trio di inconvenienti (sovra diagnosi, complicazioni del trattamento e progressione della malattia), che rendono incerto il ruolo del PSA nello screening del cancro della prostata. Lo stesso Richard Ablin, che scoprì il PSA nel 1970, ritiene che il suo uso nella routine sia un "disastro estremamente costoso per la salute pubblica." In realtà il PSA non è mai stato pensato per essere utilizzato per lo screening di routine, perché non in grado di rilevare il cancro alla prostata (come noto il PSA si può elevare anche per infezioni, uso di farmaci, ipertrofia benigna) e, soprattutto, il test non è in grado di differenziare un cancro alla prostata in rapida crescita e potenzialmente mortale da un cancro che cresce lentamente e che non ucciderà. Ciononostante rimane un test preventivo che non può essere ignorato, particolarmente nei casi di familiarità per cancro prostatico, e la sua utilità deve essere discussa tra medico e paziente, in ciascun singolo caso. Lancet. Pubblicato online il 7 agosto 2014
Autore: PAOLO TURCHI 15 luglio 2025
La terapia ormonale della infertilità maschile si basa sull'uso di due ormoni: l'FSH e l'HCG. Questi ormoni sono usati in una patologia che si chiama ipogonadismo ipogonadotropo, condizione nella quale l'organismo non è in grado di sintetizzare e immettere in circolo i 2 ormoni ipofisari FSH e LH che sono indispensabili per la produzione degli spermatozoi. Somministrare questi due ormoni in forma iniettabile ripristina una spermatogenesi efficace in pochi mesi. Sulla base di questi risultati da anni viene proposta la stessa terapia anche per trattare uomini con bassa produzione di spermatozoi, che possono avere livelli bassi o anche normali di FSH e LH (e testosterone). In sostanza in quelle forme di infertilità maschile senza una causa dimostrabile (si parla in questi casi di infertilità idiopatica) si possono somministrare questi ormoni con l’intento di iperstimolare i testicoli a produrre più spermatozoi. Questa terapia può essere proposta dallo specialista, che redigerà un piano terapeutico con il quale il paziente potrà ottenere il farmaco. Deve essere esplicitato il concetto che nonostante vi sia esperienza pluridecennale nell’uso dell’FSH e dell’HCG (che ha un effetto simile all’LH) nell’ipogonadismo ipogonadotropo, nelle forme cosiddette idiopatiche l’uso di questa terapia ormonale non compare nelle linee guida pubblicate, a causa di una evidenza scientifica ancora debole, sulla base degli studi ad oggi pubblicati. Tuttavia, oltre ad avere presupposti forti, questa terapia, negli studi pubblicati fino ad oggi, ha ottenuto risultati molto promettenti. Questi studi mostrano miglioramenti significativi in termini di ottenimento di gravidanza spontanea in coppi nelle quali i maschi erano stati curati con FSH rispetto ad analoga popolazione di maschi infertili che non avevano ricevuto la terapia. Addirittura, i miglioramenti, in termini di percentuale di coppie che hanno avuto il bambino desiderato, sono stati statisticamente significativi anche nei casi di gravidanza ottenuta con fecondazione assistita, in coppie nelle quali il maschio sia stato trattato con FSH. Perché porre una terapia impegnativa, in termini di costi e di durata , in una condizione quella della infertilità idiopatica nella quale non si è riusciti a porre una diagnosi precisa? Etichettare il maschio infertile come idiopatico e inviare la coppia a fare una procedura di fecondazione assistita equivale a privarlo di possibilità diagnostiche più approfondite e privarlo anche della possibilità di migliorare la sua condizione seminale. Lo stato si fa carico dei costi, se le indicazioni sono corrette e il maschio, anche nei casi nei quali si pensa di ricorrere alla fecondazione assistita, può, almeno in parte, farsi carico del peso della fecondazione assistita. Un 20–30% delle coppie infertili presenta infatti solo un fattore maschile. Il maschio in queste coppie è causa della fecondazione assistita che però grava interamente sulla donna, che in questi casi è sana e fertile ma deve farsi carico della procedura. Ad oggi nessuno studio, nel quale uomini infertili siano stati stimolati con livelli sovra fisiologici di gonadotropine, ha mai prodotto effetti collaterali. Le terapie sono ben tollerate e in genere i maschi infertili non hanno nessun tipo di riluttanza a sottoporsi alla terapia iniettiva. I cicli di terapia mediamente consistono di 3 iniezioni per settimana, che il paziente può praticarsi da solo, iniettandosi il prodotto sottocute nella pancia o in una coscia o in un braccio, per un periodo di 3 mesi. Naturalmente queste cure sono prescrivibili solo dallo specialista andrologo, che proporrà questa terapia sulla base di un protocollo diagnostico che abbia escluso cause specifiche di infertilità e redigerà un piano terapeutico attivando la nota AIFA 75 che consentirà di acquisire il farmaco nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale. Referenze - Dwyer AA, Raivio T, Pitteloud N. Gonadotrophin replacement for induction of fertility in hypogonadal men. Best Pract Res Clin Endocrinol Metab. 2015;29(1):91-103. - Anderson RC, Newton CL, Anderson RA, Millar RP. Gonadotropins and Their Analogs: Current and Potential Clinical Applications. Endocr Rev. 2018;39(6):911-937. - Duca Y, Calogero AE, Cannarella R, Condorelli RA, La Vignera S. Current and emerging medical therapeutic agents for idiopathi c male infertility. Expert Opin Pharmacother. 2019;20(1):55-67. - Shiraishi K, Matsuyama H. Gonadotoropin actions on spermatogenesis and hormonal therapies for spermatogenic disorders [Review]. Endocr J. 2017;64(2):123-131. - Behre HM. Clinical Use of FSH in Male Infertility. Front Endocrinol (Lausanne). 2019;10:322. - Santi D, Poti F, Simoni M, Casarini L. Pharmacogenetics of G-protein-coupled receptors variants: FSH receptor and infertility treatment. Best Pract Res Clin Endocrinol Metab. 2018;32(2):189-200. - Barbonetti A, Calogero AE, Balercia G, et al. The use of follicle stimulating hormone (FSH) for the treatment of the infertile man: position statement from the Italian Society of Andrology and Sexual Medicine (SIAMS). J Endocrinol Invest. 2018;41(9):1107-1122. - Simoni M, Casarini L. Mechanisms in endocrinology: Genetics of FSH action: a 2014-and-beyond view. Eur J Endocrinol. 2014;170(3):R91-107. - Rastrelli G, Corona G, Mannucci E, Maggi M. Factors affecting spermatogenesis upon gonadotropin-replacement therapy: a meta-analytic study. Andrology. 2014;2(6):794-808. - Santi D, Simoni M. Biosimilar recombinant follicle stimulating hormones in infertility treatment. Expert Opin Biol Ther. 2014;14(10):1399-1409. - Attia AM, Abou-Setta AM, Al-Inany HG. Gonadotrophins for idiopathic male factor subfertility. Cochrane Database Syst Rev. 2013(8):CD005071. - Garolla A, Ghezzi M, Cosci I, et al. FSH treatment in infertile males candidate to assisted reproduction improved sperm DNA fragmentation and pregnancy rate. Endocrine. 2017;56(2):416-425. - Valenti D, La Vignera S, Condorelli RA, et al. Follicle-stimulating hormone treatment in normogonadotropic infertile men. Nat Rev Urol. 2013;10(1):55-62. - Casamonti E, Vinci S, Serra E, et al. Short-term FSH treatment and sperm maturation: a prospective study in idiopathic infertile men. Andrology. 2017;5(3):414-422. - Paradisi R, Natali F, Fabbri R, Battaglia C, Seracchioli R, Venturoli S. Evidence for a stimulatory role of high doses of recombinant human folliclestimulating hormone in the treatment of male-factor infertility. Andrologia. 2014;46(9):1067-1072.
Altri articoli